giovedì 7 ottobre 2021

Bansky




Fumo. Un'odore insopportabile, sintetico, urticante. Non si limita ad entrarmi nei polmoni, si condensa come colla tra le labbra, in un sapore amaro che mi imbratta le mucose, mi leva di prepotenza l'aria fino a farmi lacrimare gli occhi, in un miscuglio di frustrante e pruriginosa impotenza. Per qualche minuto la sensazione è talmente fastidiosa e forte che penso di infilarmi entrarmi le mani in bocca per grattarmi in qualche modo l'esofago. 
Poi parola accanto a me, la voce di Rakesh, in quella nebbia apocalittica, e poco dopo il contatto di un fazzolettaccio umido, una bandana che mi lega dietro la nuca, senza delicatezza e tirandomi, nel fare il nodo, qualche ciocca di capelli. Ma chi se ne frega, non ho più la minima idea di dove io sia e di cosa cazzo stiamo facendo. So solo che da qualche parte, davanti a noi, c'è la polizia in tenuta anti sommossa, e da qualche parte, dietro di noi, c'è il resto del gruppo del centro sociale. Vedo i caschi blu, vedo i manganelli, e gli scudi in plexiglass rafforzato, appaiono e scompaiono, neanche fossero la mia Avalon. Qualcuno scalcia va un fumogeno, lo vedo piroettare rumoreggiando a pochi passa dal mio piede. Rakesh è il mio unico punto di riferimento e se fossimo proiettati in Google Maps sarebbe il punto esclamativo rosso, per indicare dove siamo. E' per questo che mi artiglio al suo braccio, forse anche con la segreta speranza di sapere che anche lui è terrorizzato quanto me. E' rossa anche la sua maglietta, e rossa è anche la cosa che mi porge, di li a poco. No, non è vero. Non è rossa. E' arancione ed è caldissima. E' una fiamma che avvolge una bottiglia di recupero, e che non starà li a bruciare per sempre in attesa della mia decisione. 
E poi, semplicemente, non penso più. Ripercorro ogni attimo di quegli ultimi mesi, mentre posso vedere lo sguardo un po' terrorizzato del poliziotto più vicino, il respiro che appanna la sua visiera, fumo e nebbia, fumo e vapore, e sirene che non hanno nulla a che vedere con il mare.

***

Sto sognando? 
Sento la sirena nel cervello, pulsare con cattiveria, e strapparmi via dalla mia nuvola dorata. 
Stavo cavalcando un drago, ma adesso il drago suona. 
Qualcosa non va. 
Apro gli occhi, incatramati di sonno, le sirene non sono la sveglia, non sono la tv, non sono il video dimenticato a palla nelle cuffie. 
Sono reali, e sono sotto casa mia, alla porta di casa, e si mescolano al suono del campanello. 
Drin drin.
Mi alzo di scatto nel letto, che è un casino di coperte, calzini, peluche, libri e capelli. 
Ho i capelli lunghissimi, si impigliano tra le mie dita mentre cerco di spostare le coperte, cerco di alzarmi, inciampo nel sonno e nella coperta, batto col ginocchio a terra. 
Ma chi è. 
Ma cosa vuole. 
A quest'ora...che ora è? 
Non lo so, è buio pesto.
Corro verso le scale, la porta a vetri dell'ingresso lampeggia di blu, ed ho ancora il segno del lenzuolo impresso sul viso. 
Corro in pigiama, gradino dopo gradino, passo davanti alle foto ricordo senza sapere ancora che non attaccheremo più niente di quel genere lì accanto. 
Finalmente la porta, la maniglia. 
Arrivo, arrivo, che cazzo, arrivo.
La porta che si apre, il poliziotto fermo, le sirene blu, l'aria fredda di ottobre che mi prende a schiaffi.
"Signorina Moreau?" si tocca pure il cappello.
Sembra uno stupidissimo film, e ho ancora troppo sonno.
Le palpebre mi si chiudono, e questa luce terribilmente forte, che lampeggia, non aiuta.
"Non ho fatto nulla"
Nulla. 
E penso alla mezza canna a scuola.
Al braccialetto dorato preso per sfida in quel negozio nuovo.
Nulla, non ho fatto nulla.
"C'è stato un incidente. I suoi genitori".
E di colpo, sono sveglia. 
Il freddo di ottobre è entrato in casa.
E' entrato dentro di me, e non se ne vuole andare più.
Di colpo, non è che non ho fatto nulla...non ho più, nulla.

*** 
Non è vero. Ho la rabbia, ne ho tantissima. Ed è quella che mi carica come una molla. Quella che mi fa stare lì, in una sommossa di cui obiettivamente non me ne frega un cazzo, a diciassette anni, i capelli cortissimi, gli occhi pieni di lacrime sintetiche e con una molotov in mano. Non mi importa di nessuno, di niente. E quindi la lancio, verso il "nemico", perché lo sfogo non è colpire ma lanciare, senza pensare troppo alle conseguenze. Le conseguenze le viviamo poco dopo, tutti quanti. Sento il rumore del vetro che si rompe, e poco dopo il rumore del manganello contro le costole. Le grida delle persone si fanno terribili, e alla fine siamo solo un'accozzaglia malmessa di corpi, scudi, divise, sneakers, fumo, fumo, fumo. Mi risveglio in ospedale, tutta rotta, tutta intera. La prima cosa che vedo è il viso di mia nonna, e la delusione e lo sdegno nei suoi occhi. Richiudo le palpebre, in preda a una stanchezza diversa. Forse, dopotutto, il coma non era poi così male. 

***
Margot si è incantata. Leila la osserva da un po', le parla sopra ma non si accorge che non la ascolta. Sembra persa in un mondo tutto suo. Le poggia la mano sulla spalla, le sorride, la scuote un pochino.
E allora lei ritorna in quel giorno assolato, in quel museo, in quel vestito di seta rossa.
Ritorna donna, non più ragazzina, la rabbia nel cuore ridotta a lapilli, sepolti sotto un mucchio di cenere, a sua volta nascosta sotto un tappeto. Emozioni nuove, esperienze nuove, una nuova Margot.
"A cosa stavi pensando?"
Le chiede fissando il quadro adesso. Margot sorride, strizza gli occhi e mormora, con una punta di nostalgia.
"Niente. Solo che io c'ero, quando lo ha dipinto. Andiamo avanti?"
Muove un paio di passi, precedendola, scivolando verso il prossimo quadro, la mano che si impiglia nella sua e strattona un pochino. 
Avanti, ancora avanti.
Il passato rimane fermo lì, tra una molotov, un quadro e una sirena, ma lei va avanti.



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