"Perché sei così arrabbiata?"
Non ero veramente arrabbiata, in quel momento. Stavo fumando una sigaretta fuori dal locale, nel piccolo portico subito davanti all'ingresso, la pioggia scrosciante tutto intorno a ricordarmi che Parigi non è esattamente la capitale del sole, l'aria autunnale ad infilarsi monella sotto il cappotto, nello spazio tra il cappello e il colletto del cappotto, in quel punto del petto dove la sciarpina nera non arrivava. L'acqua tintinniva su ogni superficie lì intorno: sul metallo delle auto parcheggiate, nelle pozze scure che si ampliavano ai lati del marciapiede, sull'asfalto della strada, rifatto da poco ma già con qualche piccola imperfezione, sul neon rosa e verde dell'insegna. Ogni goccia un suono diverso, una diversa risposta sonora al medesimo tipo di contatto. Anche con Philippe è andata così. La stessa domanda posta da mia nonna, dallo psicoterapeuta, dal più anziano della Congrega, dagli zii, dai vicini, dalla lattaia, nelle migliori delle ipotesi era caduta nel vuoto, come un sasso gettato in un pozzo, oppure aveva ricevuto devastanti e sprezzanti risposte. Non mi andava di parlare, non c'era niente da dire, avevo diciannove anni, la vita faceva schifo già da un paio e non mi andava di vederla in un modo diverso. Mi stava benissimo odiare tutti, e tutto: il sole, la luna, l'aria fresca, i vestiti, il cibo, i sorrisi. Ero equa perché a dirla tutta il mio rancore veniva distribuito senza distinzione di sangue e razza, di sesso o religione, di atteggiamenti e discorsi, e questo sentimento era talmente concreto come presenza dentro di me che mi ci sentivo un po' fidanzata...no, sposata, proprio. Non c'era posto per nient'altro, era totalizzante, annichilente. E adesso questo spilungone alto e dagli occhi severi se ne spuntava così dal nulla, in uno dei rari momenti in cui non avevo dato di matto, per porgermi un quesito del genere. Lo conoscevo da un po', solamente di vista, perché frequentavamo lo stesso piccolo bar, anche se con gruppi diversi...cosa del tutto normale considerato che mi passava vent'anni. Ricordo che mi girai a guardarlo, ma che sapevo che era stato lui a parlare ancora prima di vedere il suo viso, ad un metro di distanza dal mio. Mi capita, ogni tanto, di immaginare il mio cuore come un vecchio album di ricordo, scolorito e spesso, che riempio di voci, fotografie che non potrei mai veramente scattare, brandelli di fiori, e altri piccoli tesori. Ecco, in quelle pagine ingiallite e un po' strappate, alla data del 10 settembre 2017, ho incollato lo sguardo di Philippe, incorniciato dalla pioggia e dal fumo delle nostre sigarette, che emerge dal terribile miscuglio di blu e senape che era la sua sciarpa, e che ho ritagliato con tutto l'amore e la tenerezza di cui sono capace. Perché se mai ho amato qualcuno, di quell'amore che decantano nei film e nei libri, che rende suicida Romeo e pazzo Orlando, in tutti questi venticinque anni, sicuramente quel qualcuno è stato l'uomo che con infinita, santa, provvidenziale pazienza mi ha insegnato ad amare la vita, a perdonarmi per tutto il tempo sprecato, e a non sprecarne più neppure un istante. Non cambiò tutto quella sera. Rimanemmo a chiacchierare per un po', non ricordo quale scusa usò per prendersi il mio numero di telefono (ma ricordo che glielo diedi perché convinta gli interessasse solo farsi un giro con una più giovane) poi rientrammo dentro e ognuno tornò dalla propria compagnia.
Noi non cresciamo, in assoluto, in sintonia con lo scorrere del tempo. Cresciamo a volte in una dimensione e non in un’altra, in modo piuttosto discontinuo. Talvolta, cresciamo in modo parziale. Siamo relativi, inafferrabili. Siamo maturi in un ambito, infantili in un altro.
Il passato, il presente e il futuro possono mescolarsi e trascinarci indietro, avanti o bloccarci nel presente. Noi siamo composti di strati, di cellule, di costellazioni. Siamo i ricordi più profondi dell'universo che cercano di riattivarsi attraverso cicliche, inedite, esistenze.
Iniziò una fitta rete di corrispondenza telematica. Mi cercava solo lui, inizialmente, e la cosa che mi stupiva di più e che non cadeva mai nel basso erotismo. Poteva parlare di ore solo di geometria, di quadri, di musica tremenda che sentiva solo lui in tutto l'universo. Lì per lì non ci facevo troppo caso. Ma poi mi scoprivo, ore dopo l'ultima conversazione, a riflettere su quello che mi aveva appena accennato. Mi affioravano alla mente le sue opinioni, le preferenze, le emozioni che mi descriveva. Non sapevo collocarle in maniera precisa nei miei pensieri, ma sentivo che erano piccoli spiragli di luce in quel miscuglio opaco e spesso che era diventato il mio cervello. La morte dei miei genitori, quell'anno, mi mandò in ospedale in coma etilico. Avevo un aspetto terribile, la pelle quasi itterica e occhiaie terribili. Lui venne comunque in ospedale, nonostante gli avessi precisato che non era il benvenuto, incurante delle mie rimostranze. Non volevo tornare a casa, sapevo che mia nonna mi avrebbe devastato di sensi di colpa e recriminazioni, mi avrebbe messo sotto pressione e tentato nuovi esperimenti su di me, convinta che un bel risveglio avrebbe riallineato il mio cervello.
"Vieni a casa mia, per un po'."
"Non sono gradevole come ospite."
"Allora vedila come una riabilitazione. Rimani per un po', ti fai curare, poi sei libera di andare dove ti pare. Non ti cercherò più."
"Sei un medico? Credevo fossi un pittore."
"Sono solo qualcuno che può aiutarti."
"E cosa vuoi in cambio?"
"Niente, Ma tu mi ricordi qualcuno. E vorrei rimediare a un vecchio torto fatto a questa persona. Allora...vieni?"
Andai.
Io sono dell'idea che ogni aspetto del sovrannatuale sia legato allo sblocco di un ricordo. Uno stregone utilizza la magia non perché impara a farlo, ma perché ricorda come farlo. Quella *possibilità* è sempre stata lì. Lo stesso termine "risveglio" trovo sia perfettamente in linea con tale idea. Come mai non riesci a ricordare? Mh? Le ragioni potrebbero essere diverse. Tuttavia, la cosa migliore che puoi fare ritengo sia semplicemente...Fare spazio.
Fai spazio a questi nuovi ricordi, lascia che il tuo passato venga messo da parte. Dimenticalo. Ma non tutto il tuo passato, solo ciò che è oggettivamente inutile, tutto ciò che è doloroso, tutto ciò che non serve a nulla nel tuo presente. Esistono ricordi buoni, ma sono pochi, ed è importante riuscire a riconoscerli. Un tuo ricordo buono? Mh? Probabilmente i tuoi genitori. Focalizzati sul loro ricordo, mantieni vivo unicamente quello. Tutto il resto gettalo via, fai spazio, prepara il tuo risveglio.
Philippe fu una meravigliosa, liberatoria, terapia. Mi ricoprì di amore e tenerezza, e lo fece senza secondi fini, quel genere di amore che spazia oltre il corpo e il coito. Dipinse per me nuove prospettive, cieli pieni di stelle, albe e tramonti su posti da scoprire, nutrendomi di sogni e di positività. Quando non volevo saperne di mangiare mi imboccava, come si fa con gli uccellini caduti dal nido, ancora spelacchiati e incapaci di volare. Ero un uccellino e riposavo nell'incavo delle sue premurose mani, lasciando che la sua filosofia, la sua etica, la sua cultura, permeassero nei frammenti della mia anima e li cementassero, come l'oro nell'antica arte del Kintsugi giapponese. L'albero spoglio e triste che ero mise su nuove gemme, e cominciò a rifiorire. Non avevo del tutto dimenticato i torti subiti, ma riuscivo a gestirli in maniera diversa, consapevole e meno devastante. Fu un percorso graduale, non sempre facile, non sempre felice. Ma era un percorso di successo che mi aveva fatto scoprire lati nuovi del mio carattere, passioni. Avevo messo foglioline fatte di opinioni, atteggiamenti che sarebbero stati miei per sempre, da quel momento in poi. Ero persino ritornata a casa di mia nonna, riallacciando i rapporti. Avevo ripreso l'università, ripreso peso, ripreso il buon umore e spesso con le compagnie di merda. E devo dire che un po' me lo aspettavo, quando mi mandò un messaggio per dirmi che non ci saremmo più visti, che potevo camminare da sola da quel momento in poi. Perché di base non avevamo mai consumato niente di veramente intimo e carnale, era stato un padre, un fratello, un compagno di merende, un professore, un dottore, ma mai un amante.
"Margot..." la voce di Philippe, un miscuglio di rimprovero e confusione, mentre finisco di slacciare la cintura del trench, lo sbottono e sotto non indosso niente. E' seduto sul divano, è il giorno dei saluti, la sua casa è pieno di valigie e di scatoloni. Non ci vedremo mai più, me lo conferma ogni imballaggio, la traccia chiara dei muri lì dove una volta c'erano quadri, l'assenza della mia poltrona preferita. Restiamo solo io, lui, il divano e un mucchio di cose che andranno spedite altrove.
"Cosa?" chiedo, mentre rimango completamente nuda e mi sposto verso di lui. "Lo so che non ci vedremo più. Non ti cercherò, e non mi cercherai. Ma questo domani. Adesso salutiamoci. Te lo devo, e me lo devi"
"Potrei essere tuo padre, e non è questo che voglio per te. Per noi." mormora, la voce ridotta ad un filo, mentre mi siedo addosso a lui, a cavalcioni.
"Di fatto non sei mio padre. Sei un uomo, sono una donna. E sei stato più vicino al mio cuore di chiunque altro...voglio averti vicino anche in un altro modo. Solo per una volta" bisbiglio, vicino al suo orecchio, le mani che gli sbottonano la camicia.
"Margot...Pensaci bene. Non voglio essere un brutto ricordo" resiste, ancora, ma le sue mani mi stanno già accarezzando la schiena.
"Allora smettila di resistere e fai in modo che sia un ricordo grandioso" gli sbottono i pantaloni, strappo via l'ultima reticenza e finalmente ci troviamo.
Addio Philippe. Tutti i superlativi di questo mondo non sono comunque sufficienti e descrivere cosa abbia rappresentato averti nella mia vita. Grazie, grazie, grazie.
In certe cose, come per il tuo risveglio, prima è necessario fare spazio. Nella propria mente e nel proprio cuore
14.10.2021
Oggi ho sognato Philippe, non mi succedeva da un decennio circa. E quando ho aperto gli occhi c'era musica nella mia stanza. Non era la mia musica, ma quella di Travis. Sono rimasta lì, infagottata nel tepore del mio piumino, al sicuro nei confortanti odori della mia nuova casa, mentre i discorsi nel mio cervello si mescolavano, passato e presente. Poi ho chiuso di nuovo le palpebre, più o meno quando Travis ha attaccato di nuovo il saldatore. Ho sentito la signora Bus gridare, dal piano di sotto, e mi sono ritrovata a sorridere. Nell'atmosfera ovattata del mattino, i vetri sporchi di condensa, la luce che inonda la stanza, ho preso le mie forbici immaginarie e ho ritagliato un altro paio di occhi. Lo sguardo verde di chi sta dall'altra parte del pianerottolo, confuso tra fumi di metalli fusi e scintille sibilanti. Il gracchiare di un piccolo corvo, e il crepitare della cartina mentre aspira. Ho respirato, a fondo, cementando il ricordo e cristallizzandolo. Ci ho disegnato sopra una fantasia: la mia mano stretta nella sua, la mia piccola, la sua accidentata, la mia liscia e vezzosa, la sua grande e tatuata. Me la stringe forte mentre mi indica un puntino luminoso, in un cielo stranissimo. Poi ho riaperto gli occhi, sentendomi di colpo una sciocca invadente. Ho cancellato tutto, come farebbe una bambina con una lavagnetta magica, un colpo secco di cancellino e il disegno non c'è più, e mi sono alzata per andare in bagno. Ed è stato lì, seduta sul cesso a riflettere, in bocca la primissima sigaretta del mattino, che era *di nuovo* finita la carta igienica. E che l'invadente, dopotutto, non ero io.
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