C'era un posto, a Parigi, che era
tutto mio.
Non siamo mai stati troppo fermi
a New Orleans, con i miei genitori, era sempre un viaggio continuo, tra casa,
Portland e Parigi. Ci trascorrevamo tantissimo tempo, complice il fatto che non
avevo bisogno di andare a scuola, avevo una tata prima, ed un istitutore
privato poi. Parigi, tra tutte, era la mia meta preferita, il mio posto nel
mondo. Mi sono sempre sentita più francese che americana, e se non fosse dipeso
dalla morte dei miei genitori avrei accolto il trasferimento lì come una
grande, grandissima gioia.
Dicevo. Avevo un posto lì, che
era solo per me. Nella villa della nonna, con stanze in cui non era consentito
l'accesso ai "non stregoni", e stanze in cui semplicemente non era
consentito l'accesso, e stanze dove c'era fin troppa gente, avevo trovato un
cantuccio tutto mio dove smettevo di essere sola ed ero in compagnia di me
stessa. La piccola dépendance abbandonata, proprio all'inizio del parco che
ospitava la pomposa casa Moreau, faceva proprio al caso mio. L'avevo ripulita a
dovere, ci avevo buttato dentro un materassaccio, libri, musica. Tantissima
musica. Le foto di mamma e papà, che in casa erano proibite - troppo il dolore,
viviamo il presente - i miei piccoli tesori, il mio computer. I miei, computer.
E' stato il posto di tante prime volte. Il primo spinello, la prima bevuta. Non
la prima volta con un uomo, quella è tutta americana, ma sicuramente la prima
volta che ho provato a fare una pozione. O un incantesimo. Disastri su disastri.
Era il posto dove smettevo di essere orfana, smettevo di essere la “non risvegliata”,
dove non deludevo nessuno ed ero solo Margot.
Anche in questa casa nuova, che è
piccina tutto sommato, ed è solo mia sento il bisogno di ritagliarmi un
ulteriore spazietto. Sento il bisogno di accoccolarmi in spazi piccoli, in un
posto dove sentirmi protetta, stretta stretta come uno scoiattolo in una tana,
un nido che mi aderisca addosso. Forse è la mia personale sublimazione del
concetto di abbraccio, o semplicemente l’opposto della claustrofobia. Forse
dipende dal fatto che, di tanto in tanto, mi ritrovo Travis in bagno a rubare
cose, incurante del concetto di proprietà altrui e di privacy, che mi fa
avvertire che neppure questa casa è veramente solo mia.
So che non passerà mai, questa
sensazione di espatriata, questo vago e nauseante senso di abbandono, e la
leggerezza che deriva dal non appartenere a niente e a nessuno, se non a me
stessa. So che rimarrò sempre un po' nomade, di luoghi e di corpi, di posti e
di rancori, e so che anche questo contribuisce a rendermi quella che sono.
Eppure, giorno dopo giorno, mi sto acclimatando. Mi piace Bowerton, mi piace il
mercato, mi piacciono i suoi dintorni. So che dovrei avercela con queste
strade, con ogni cosa che qui cammini e respiri, ma non riesco. E quindi mi
innamoro, a poco a poco, degli incontri che faccio. Del gatto che viene a
spiare sulla mia finestra, ogni mattina. Rosso, con gli occhi azzurri. Di persone
strane o sciroccate, che mi capita di incontrare. Dell’apple pie che fa la
tavola calda sotto al mio temporary office. Innamorarmi, come sempre, mi porta a
spogliarmi. Abbandono i formalismi, con sollievo, e mi comporto con leggerezza.
Anche troppa. Sono stata incauta con Helmut, un errore da pivellina. Mai affidare
informazioni delicate ad un server infetto da virus. E lui è pieno di trojan. E
anche di troie, per amor di cronaca. Mi sono rimproverata per due giorni,
adesso basta. Tutti commettono degli sbagli, e l’essenziale è variare l’errore.
Stasera ceno con un tizio che ha un grosso tatuaggio sulla gola, lo guardo
muoversi mentre mi parla e mi ipnotizza un po’. Mi piace il modo in cui mi
guarda, e ha delle belle mani. So che sarà un altro spazietto di colore, in una
tavolozza variopinta, ma non ha importanza.
Il viaggio è lungo, di tanto in
tanto è bene fare qualche sosta. E prima o poi troverò anche qui il mio spazio
claustrofobico dove essere semplicemente io.
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