martedì 5 ottobre 2021

5.10.2021



C'era un posto, a Parigi, che era tutto mio.

 

Non siamo mai stati troppo fermi a New Orleans, con i miei genitori, era sempre un viaggio continuo, tra casa, Portland e Parigi. Ci trascorrevamo tantissimo tempo, complice il fatto che non avevo bisogno di andare a scuola, avevo una tata prima, ed un istitutore privato poi. Parigi, tra tutte, era la mia meta preferita, il mio posto nel mondo. Mi sono sempre sentita più francese che americana, e se non fosse dipeso dalla morte dei miei genitori avrei accolto il trasferimento lì come una grande, grandissima gioia.

Dicevo. Avevo un posto lì, che era solo per me. Nella villa della nonna, con stanze in cui non era consentito l'accesso ai "non stregoni", e stanze in cui semplicemente non era consentito l'accesso, e stanze dove c'era fin troppa gente, avevo trovato un cantuccio tutto mio dove smettevo di essere sola ed ero in compagnia di me stessa. La piccola dépendance abbandonata, proprio all'inizio del parco che ospitava la pomposa casa Moreau, faceva proprio al caso mio. L'avevo ripulita a dovere, ci avevo buttato dentro un materassaccio, libri, musica. Tantissima musica. Le foto di mamma e papà, che in casa erano proibite - troppo il dolore, viviamo il presente - i miei piccoli tesori, il mio computer. I miei, computer. E' stato il posto di tante prime volte. Il primo spinello, la prima bevuta. Non la prima volta con un uomo, quella è tutta americana, ma sicuramente la prima volta che ho provato a fare una pozione. O un incantesimo. Disastri su disastri. Era il posto dove smettevo di essere orfana, smettevo di essere la “non risvegliata”, dove non deludevo nessuno ed ero solo Margot.

 Anche in questa casa nuova, che è piccina tutto sommato, ed è solo mia sento il bisogno di ritagliarmi un ulteriore spazietto. Sento il bisogno di accoccolarmi in spazi piccoli, in un posto dove sentirmi protetta, stretta stretta come uno scoiattolo in una tana, un nido che mi aderisca addosso. Forse è la mia personale sublimazione del concetto di abbraccio, o semplicemente l’opposto della claustrofobia. Forse dipende dal fatto che, di tanto in tanto, mi ritrovo Travis in bagno a rubare cose, incurante del concetto di proprietà altrui e di privacy, che mi fa avvertire che neppure questa casa è veramente solo mia.

 So che non passerà mai, questa sensazione di espatriata, questo vago e nauseante senso di abbandono, e la leggerezza che deriva dal non appartenere a niente e a nessuno, se non a me stessa. So che rimarrò sempre un po' nomade, di luoghi e di corpi, di posti e di rancori, e so che anche questo contribuisce a rendermi quella che sono. Eppure, giorno dopo giorno, mi sto acclimatando. Mi piace Bowerton, mi piace il mercato, mi piacciono i suoi dintorni. So che dovrei avercela con queste strade, con ogni cosa che qui cammini e respiri, ma non riesco. E quindi mi innamoro, a poco a poco, degli incontri che faccio. Del gatto che viene a spiare sulla mia finestra, ogni mattina. Rosso, con gli occhi azzurri. Di persone strane o sciroccate, che mi capita di incontrare. Dell’apple pie che fa la tavola calda sotto al mio temporary office. Innamorarmi, come sempre, mi porta a spogliarmi. Abbandono i formalismi, con sollievo, e mi comporto con leggerezza. Anche troppa. Sono stata incauta con Helmut, un errore da pivellina. Mai affidare informazioni delicate ad un server infetto da virus. E lui è pieno di trojan. E anche di troie, per amor di cronaca. Mi sono rimproverata per due giorni, adesso basta. Tutti commettono degli sbagli, e l’essenziale è variare l’errore. Stasera ceno con un tizio che ha un grosso tatuaggio sulla gola, lo guardo muoversi mentre mi parla e mi ipnotizza un po’. Mi piace il modo in cui mi guarda, e ha delle belle mani. So che sarà un altro spazietto di colore, in una tavolozza variopinta, ma non ha importanza.

Il viaggio è lungo, di tanto in tanto è bene fare qualche sosta. E prima o poi troverò anche qui il mio spazio claustrofobico dove essere semplicemente io.

 

 


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