domenica 17 ottobre 2021

Philippe





"Perché sei così arrabbiata?"

Non ero veramente arrabbiata, in quel momento. Stavo fumando una sigaretta fuori dal locale, nel piccolo portico subito davanti all'ingresso, la pioggia scrosciante tutto intorno a ricordarmi che Parigi non è esattamente la capitale del sole, l'aria autunnale ad infilarsi monella sotto il cappotto, nello spazio tra il cappello e il colletto del cappotto, in quel punto del petto dove la sciarpina nera non arrivava. L'acqua tintinniva su ogni superficie lì intorno: sul metallo delle auto parcheggiate, nelle pozze scure che si ampliavano ai lati del marciapiede, sull'asfalto della strada, rifatto da poco ma già con qualche piccola imperfezione, sul neon rosa e verde dell'insegna. Ogni goccia un suono diverso, una diversa risposta sonora al medesimo tipo di contatto. Anche con Philippe è andata così. La stessa domanda posta da mia nonna, dallo psicoterapeuta, dal più anziano della Congrega, dagli zii, dai vicini, dalla lattaia, nelle migliori delle ipotesi era caduta nel vuoto, come un sasso gettato in un pozzo, oppure aveva ricevuto devastanti e sprezzanti risposte. Non mi andava di parlare, non c'era niente da dire, avevo diciannove anni, la vita faceva schifo già da un paio e non mi andava di vederla in un modo diverso. Mi stava benissimo odiare tutti, e tutto: il sole, la luna, l'aria fresca, i vestiti, il cibo,  i sorrisi. Ero equa perché a dirla tutta il mio rancore veniva distribuito senza distinzione di sangue e razza, di sesso o religione, di atteggiamenti e discorsi, e questo sentimento era talmente concreto come presenza dentro di me che mi ci sentivo un po' fidanzata...no, sposata, proprio. Non c'era posto per nient'altro, era totalizzante, annichilente. E adesso questo spilungone alto e dagli occhi severi se ne spuntava così dal nulla, in uno dei rari momenti in cui non avevo dato di matto, per porgermi un quesito del genere. Lo conoscevo da un po', solamente di vista, perché frequentavamo lo stesso piccolo bar, anche se con gruppi diversi...cosa del tutto normale considerato che mi passava vent'anni. Ricordo che mi girai a guardarlo, ma che sapevo che era stato lui a parlare ancora prima di vedere il suo viso, ad un metro di distanza dal mio. Mi capita, ogni tanto, di immaginare il mio cuore come un vecchio album di ricordo, scolorito e spesso, che riempio di voci, fotografie che non potrei mai veramente scattare, brandelli di fiori, e altri piccoli tesori. Ecco, in quelle pagine ingiallite e un po' strappate, alla data del 10 settembre 2017, ho incollato lo sguardo di Philippe, incorniciato dalla pioggia e dal fumo delle nostre sigarette, che emerge dal terribile miscuglio di blu e senape che era la sua sciarpa, e che ho ritagliato con tutto l'amore e la tenerezza di cui sono capace. Perché se mai ho amato qualcuno, di quell'amore che decantano nei film e nei libri, che rende suicida Romeo e pazzo Orlando, in tutti questi venticinque anni, sicuramente quel qualcuno è stato l'uomo che con infinita, santa, provvidenziale pazienza mi ha insegnato ad amare la vita, a perdonarmi per tutto il tempo sprecato, e a non sprecarne più neppure un istante. Non cambiò tutto quella sera. Rimanemmo a chiacchierare per un po', non ricordo quale scusa usò per prendersi il mio numero di telefono (ma ricordo che glielo diedi perché convinta gli interessasse solo farsi un giro con una più giovane) poi rientrammo dentro e ognuno tornò dalla propria compagnia. 


Noi non cresciamo, in assoluto, in sintonia con lo scorrere del tempo. Cresciamo a volte in una dimensione e non in un’altra, in modo piuttosto discontinuo. Talvolta, cresciamo in modo parziale. Siamo relativi, inafferrabili. Siamo maturi in un ambito, infantili in un altro. 

Il passato, il presente e il futuro possono mescolarsi e trascinarci indietro, avanti o bloccarci nel presente. Noi siamo composti di strati, di cellule, di costellazioni. Siamo i ricordi più profondi dell'universo che cercano di riattivarsi attraverso cicliche, inedite, esistenze.


Iniziò una fitta rete di corrispondenza telematica. Mi cercava solo lui, inizialmente, e la cosa che mi stupiva di più e che non cadeva mai nel basso erotismo. Poteva parlare di ore solo di geometria, di quadri, di musica tremenda che sentiva solo lui in tutto l'universo. Lì per lì non ci facevo troppo caso. Ma poi mi scoprivo, ore dopo l'ultima conversazione, a riflettere su quello che mi aveva appena accennato. Mi affioravano alla mente le sue opinioni, le preferenze, le emozioni che mi descriveva. Non sapevo collocarle in maniera precisa nei miei pensieri, ma sentivo che erano piccoli spiragli di luce in quel miscuglio opaco e spesso che era diventato il mio cervello. La morte dei miei genitori, quell'anno, mi mandò in ospedale in coma etilico. Avevo un aspetto terribile, la pelle quasi itterica e occhiaie terribili. Lui venne comunque in ospedale, nonostante gli avessi precisato che non era il benvenuto, incurante delle mie rimostranze. Non volevo tornare a casa, sapevo che mia nonna mi avrebbe devastato di sensi di colpa e recriminazioni, mi avrebbe messo sotto pressione e tentato nuovi esperimenti su di me, convinta che un bel risveglio avrebbe riallineato il mio cervello. 

"Vieni a casa mia, per un po'."

"Non sono gradevole come ospite."

"Allora vedila come una riabilitazione. Rimani per un po', ti fai curare, poi sei libera di andare dove ti pare. Non ti cercherò più."

"Sei un medico? Credevo fossi un pittore."

"Sono solo qualcuno che può aiutarti."

"E cosa vuoi in cambio?"

"Niente, Ma tu mi ricordi qualcuno. E vorrei rimediare a un vecchio torto fatto a questa persona. Allora...vieni?"

Andai.


Io sono dell'idea che ogni aspetto del sovrannatuale sia legato allo sblocco di un ricordo. Uno stregone utilizza la magia non perché impara a farlo, ma perché ricorda come farlo. Quella *possibilità* è sempre stata lì. Lo stesso termine "risveglio" trovo sia perfettamente in linea con tale idea. Come mai non riesci a ricordare? Mh? Le ragioni potrebbero essere diverse. Tuttavia, la cosa migliore che puoi fare ritengo sia semplicemente...Fare spazio.

Fai spazio a questi nuovi ricordi, lascia che il tuo passato venga messo da parte. Dimenticalo. Ma non tutto il tuo passato, solo ciò che è oggettivamente inutile, tutto ciò che è doloroso, tutto ciò che non serve a nulla nel tuo presente. Esistono ricordi buoni, ma sono pochi, ed è importante riuscire a riconoscerli. Un tuo ricordo buono? Mh? Probabilmente i tuoi genitori. Focalizzati sul loro ricordo, mantieni vivo unicamente quello. Tutto il resto gettalo via, fai spazio, prepara il tuo risveglio.


Philippe fu una meravigliosa, liberatoria, terapia. Mi ricoprì di amore e tenerezza, e lo fece senza secondi fini, quel genere di amore che spazia oltre il corpo e il coito. Dipinse per me nuove prospettive, cieli pieni di stelle, albe e tramonti su posti da scoprire, nutrendomi di sogni e di positività. Quando non volevo saperne di mangiare mi imboccava, come si fa con gli uccellini caduti dal nido, ancora spelacchiati e incapaci di volare. Ero un uccellino e riposavo nell'incavo delle sue premurose mani, lasciando che la sua filosofia, la sua etica, la sua cultura, permeassero nei frammenti della mia anima e li cementassero, come l'oro nell'antica arte del Kintsugi giapponese. L'albero spoglio e triste che ero mise su nuove gemme, e cominciò a rifiorire. Non avevo del tutto dimenticato i torti subiti, ma riuscivo a gestirli in maniera diversa, consapevole e meno devastante. Fu un percorso graduale, non sempre facile, non sempre felice. Ma era un percorso di successo che mi aveva fatto scoprire lati nuovi del mio carattere, passioni. Avevo messo foglioline fatte di opinioni, atteggiamenti che sarebbero stati miei per sempre, da quel momento in poi. Ero persino ritornata a casa di mia nonna, riallacciando i rapporti. Avevo ripreso l'università, ripreso peso, ripreso il buon umore e spesso con le compagnie di merda. E devo dire che un po' me lo aspettavo, quando mi mandò un messaggio per dirmi che non ci saremmo più visti, che potevo camminare da sola da quel momento in poi. Perché di base non avevamo mai consumato niente di veramente intimo e carnale, era stato un padre, un fratello, un compagno di merende, un professore, un dottore, ma mai un amante. 

"Margot..." la voce di Philippe, un miscuglio di rimprovero e confusione, mentre finisco di slacciare la cintura del trench, lo sbottono e sotto non indosso niente. E' seduto sul divano, è il giorno dei saluti, la sua casa è pieno di valigie e di scatoloni. Non ci vedremo mai più, me lo conferma ogni imballaggio, la traccia chiara dei muri lì dove una volta c'erano quadri, l'assenza della mia poltrona preferita. Restiamo solo io, lui, il divano e un mucchio di cose che andranno spedite altrove.

"Cosa?" chiedo, mentre rimango completamente nuda e mi sposto verso di lui. "Lo so che non ci vedremo più. Non ti cercherò, e non mi cercherai. Ma questo domani. Adesso salutiamoci. Te lo devo, e me lo devi"

"Potrei essere tuo padre, e non è questo che voglio per te. Per noi." mormora, la voce ridotta ad un filo, mentre mi siedo addosso a lui, a cavalcioni. 

"Di fatto non sei mio padre. Sei un uomo, sono una donna. E sei stato più vicino al mio cuore di chiunque altro...voglio averti vicino anche in un altro modo. Solo per una volta" bisbiglio, vicino al suo orecchio, le mani che gli sbottonano la camicia.

"Margot...Pensaci bene. Non voglio essere un brutto ricordo" resiste, ancora, ma le sue mani mi stanno già accarezzando la schiena.

"Allora smettila di resistere e fai in modo che sia un ricordo grandioso" gli sbottono i pantaloni, strappo via l'ultima reticenza e finalmente ci troviamo.

Addio Philippe. Tutti i superlativi di questo mondo non sono comunque sufficienti e descrivere cosa abbia rappresentato averti nella mia vita. Grazie, grazie, grazie. 


In certe cose, come per il tuo risveglio, prima è necessario fare spazio. Nella propria mente e nel proprio cuore


14.10.2021

Oggi ho sognato Philippe, non mi succedeva da un decennio circa. E quando ho aperto gli occhi c'era musica nella mia stanza. Non era la mia musica, ma quella di Travis. Sono rimasta lì, infagottata nel tepore del mio piumino, al sicuro nei confortanti odori della mia nuova casa, mentre i discorsi nel mio cervello si mescolavano, passato e presente. Poi ho chiuso di nuovo le palpebre, più o meno quando Travis ha attaccato di nuovo il saldatore. Ho sentito la signora Bus gridare, dal piano di sotto, e mi sono ritrovata a sorridere. Nell'atmosfera ovattata del mattino, i vetri sporchi di condensa, la luce che inonda la stanza, ho preso le mie forbici immaginarie e ho ritagliato un altro paio di occhi. Lo sguardo verde di chi sta dall'altra parte del pianerottolo, confuso tra fumi di metalli fusi e scintille sibilanti. Il gracchiare di un piccolo corvo, e il crepitare della cartina mentre aspira. Ho respirato, a fondo, cementando il ricordo e cristallizzandolo. Ci ho disegnato sopra una fantasia: la mia mano stretta nella sua, la mia piccola, la sua accidentata, la mia liscia e vezzosa, la sua grande e tatuata. Me la stringe forte mentre mi indica un puntino luminoso, in un cielo stranissimo. Poi ho riaperto gli occhi, sentendomi di colpo una sciocca invadente. Ho cancellato tutto, come farebbe una bambina con una lavagnetta magica, un colpo secco di cancellino e il disegno non c'è più, e mi sono alzata per andare in bagno. Ed è stato lì, seduta sul cesso a riflettere, in bocca la primissima sigaretta del mattino, che era *di nuovo* finita la carta igienica. E che l'invadente, dopotutto, non ero io.

giovedì 7 ottobre 2021

Bansky




Fumo. Un'odore insopportabile, sintetico, urticante. Non si limita ad entrarmi nei polmoni, si condensa come colla tra le labbra, in un sapore amaro che mi imbratta le mucose, mi leva di prepotenza l'aria fino a farmi lacrimare gli occhi, in un miscuglio di frustrante e pruriginosa impotenza. Per qualche minuto la sensazione è talmente fastidiosa e forte che penso di infilarmi entrarmi le mani in bocca per grattarmi in qualche modo l'esofago. 
Poi parola accanto a me, la voce di Rakesh, in quella nebbia apocalittica, e poco dopo il contatto di un fazzolettaccio umido, una bandana che mi lega dietro la nuca, senza delicatezza e tirandomi, nel fare il nodo, qualche ciocca di capelli. Ma chi se ne frega, non ho più la minima idea di dove io sia e di cosa cazzo stiamo facendo. So solo che da qualche parte, davanti a noi, c'è la polizia in tenuta anti sommossa, e da qualche parte, dietro di noi, c'è il resto del gruppo del centro sociale. Vedo i caschi blu, vedo i manganelli, e gli scudi in plexiglass rafforzato, appaiono e scompaiono, neanche fossero la mia Avalon. Qualcuno scalcia va un fumogeno, lo vedo piroettare rumoreggiando a pochi passa dal mio piede. Rakesh è il mio unico punto di riferimento e se fossimo proiettati in Google Maps sarebbe il punto esclamativo rosso, per indicare dove siamo. E' per questo che mi artiglio al suo braccio, forse anche con la segreta speranza di sapere che anche lui è terrorizzato quanto me. E' rossa anche la sua maglietta, e rossa è anche la cosa che mi porge, di li a poco. No, non è vero. Non è rossa. E' arancione ed è caldissima. E' una fiamma che avvolge una bottiglia di recupero, e che non starà li a bruciare per sempre in attesa della mia decisione. 
E poi, semplicemente, non penso più. Ripercorro ogni attimo di quegli ultimi mesi, mentre posso vedere lo sguardo un po' terrorizzato del poliziotto più vicino, il respiro che appanna la sua visiera, fumo e nebbia, fumo e vapore, e sirene che non hanno nulla a che vedere con il mare.

***

Sto sognando? 
Sento la sirena nel cervello, pulsare con cattiveria, e strapparmi via dalla mia nuvola dorata. 
Stavo cavalcando un drago, ma adesso il drago suona. 
Qualcosa non va. 
Apro gli occhi, incatramati di sonno, le sirene non sono la sveglia, non sono la tv, non sono il video dimenticato a palla nelle cuffie. 
Sono reali, e sono sotto casa mia, alla porta di casa, e si mescolano al suono del campanello. 
Drin drin.
Mi alzo di scatto nel letto, che è un casino di coperte, calzini, peluche, libri e capelli. 
Ho i capelli lunghissimi, si impigliano tra le mie dita mentre cerco di spostare le coperte, cerco di alzarmi, inciampo nel sonno e nella coperta, batto col ginocchio a terra. 
Ma chi è. 
Ma cosa vuole. 
A quest'ora...che ora è? 
Non lo so, è buio pesto.
Corro verso le scale, la porta a vetri dell'ingresso lampeggia di blu, ed ho ancora il segno del lenzuolo impresso sul viso. 
Corro in pigiama, gradino dopo gradino, passo davanti alle foto ricordo senza sapere ancora che non attaccheremo più niente di quel genere lì accanto. 
Finalmente la porta, la maniglia. 
Arrivo, arrivo, che cazzo, arrivo.
La porta che si apre, il poliziotto fermo, le sirene blu, l'aria fredda di ottobre che mi prende a schiaffi.
"Signorina Moreau?" si tocca pure il cappello.
Sembra uno stupidissimo film, e ho ancora troppo sonno.
Le palpebre mi si chiudono, e questa luce terribilmente forte, che lampeggia, non aiuta.
"Non ho fatto nulla"
Nulla. 
E penso alla mezza canna a scuola.
Al braccialetto dorato preso per sfida in quel negozio nuovo.
Nulla, non ho fatto nulla.
"C'è stato un incidente. I suoi genitori".
E di colpo, sono sveglia. 
Il freddo di ottobre è entrato in casa.
E' entrato dentro di me, e non se ne vuole andare più.
Di colpo, non è che non ho fatto nulla...non ho più, nulla.

*** 
Non è vero. Ho la rabbia, ne ho tantissima. Ed è quella che mi carica come una molla. Quella che mi fa stare lì, in una sommossa di cui obiettivamente non me ne frega un cazzo, a diciassette anni, i capelli cortissimi, gli occhi pieni di lacrime sintetiche e con una molotov in mano. Non mi importa di nessuno, di niente. E quindi la lancio, verso il "nemico", perché lo sfogo non è colpire ma lanciare, senza pensare troppo alle conseguenze. Le conseguenze le viviamo poco dopo, tutti quanti. Sento il rumore del vetro che si rompe, e poco dopo il rumore del manganello contro le costole. Le grida delle persone si fanno terribili, e alla fine siamo solo un'accozzaglia malmessa di corpi, scudi, divise, sneakers, fumo, fumo, fumo. Mi risveglio in ospedale, tutta rotta, tutta intera. La prima cosa che vedo è il viso di mia nonna, e la delusione e lo sdegno nei suoi occhi. Richiudo le palpebre, in preda a una stanchezza diversa. Forse, dopotutto, il coma non era poi così male. 

***
Margot si è incantata. Leila la osserva da un po', le parla sopra ma non si accorge che non la ascolta. Sembra persa in un mondo tutto suo. Le poggia la mano sulla spalla, le sorride, la scuote un pochino.
E allora lei ritorna in quel giorno assolato, in quel museo, in quel vestito di seta rossa.
Ritorna donna, non più ragazzina, la rabbia nel cuore ridotta a lapilli, sepolti sotto un mucchio di cenere, a sua volta nascosta sotto un tappeto. Emozioni nuove, esperienze nuove, una nuova Margot.
"A cosa stavi pensando?"
Le chiede fissando il quadro adesso. Margot sorride, strizza gli occhi e mormora, con una punta di nostalgia.
"Niente. Solo che io c'ero, quando lo ha dipinto. Andiamo avanti?"
Muove un paio di passi, precedendola, scivolando verso il prossimo quadro, la mano che si impiglia nella sua e strattona un pochino. 
Avanti, ancora avanti.
Il passato rimane fermo lì, tra una molotov, un quadro e una sirena, ma lei va avanti.



martedì 5 ottobre 2021

5.10.2021



C'era un posto, a Parigi, che era tutto mio.

 

Non siamo mai stati troppo fermi a New Orleans, con i miei genitori, era sempre un viaggio continuo, tra casa, Portland e Parigi. Ci trascorrevamo tantissimo tempo, complice il fatto che non avevo bisogno di andare a scuola, avevo una tata prima, ed un istitutore privato poi. Parigi, tra tutte, era la mia meta preferita, il mio posto nel mondo. Mi sono sempre sentita più francese che americana, e se non fosse dipeso dalla morte dei miei genitori avrei accolto il trasferimento lì come una grande, grandissima gioia.

Dicevo. Avevo un posto lì, che era solo per me. Nella villa della nonna, con stanze in cui non era consentito l'accesso ai "non stregoni", e stanze in cui semplicemente non era consentito l'accesso, e stanze dove c'era fin troppa gente, avevo trovato un cantuccio tutto mio dove smettevo di essere sola ed ero in compagnia di me stessa. La piccola dépendance abbandonata, proprio all'inizio del parco che ospitava la pomposa casa Moreau, faceva proprio al caso mio. L'avevo ripulita a dovere, ci avevo buttato dentro un materassaccio, libri, musica. Tantissima musica. Le foto di mamma e papà, che in casa erano proibite - troppo il dolore, viviamo il presente - i miei piccoli tesori, il mio computer. I miei, computer. E' stato il posto di tante prime volte. Il primo spinello, la prima bevuta. Non la prima volta con un uomo, quella è tutta americana, ma sicuramente la prima volta che ho provato a fare una pozione. O un incantesimo. Disastri su disastri. Era il posto dove smettevo di essere orfana, smettevo di essere la “non risvegliata”, dove non deludevo nessuno ed ero solo Margot.

 Anche in questa casa nuova, che è piccina tutto sommato, ed è solo mia sento il bisogno di ritagliarmi un ulteriore spazietto. Sento il bisogno di accoccolarmi in spazi piccoli, in un posto dove sentirmi protetta, stretta stretta come uno scoiattolo in una tana, un nido che mi aderisca addosso. Forse è la mia personale sublimazione del concetto di abbraccio, o semplicemente l’opposto della claustrofobia. Forse dipende dal fatto che, di tanto in tanto, mi ritrovo Travis in bagno a rubare cose, incurante del concetto di proprietà altrui e di privacy, che mi fa avvertire che neppure questa casa è veramente solo mia.

 So che non passerà mai, questa sensazione di espatriata, questo vago e nauseante senso di abbandono, e la leggerezza che deriva dal non appartenere a niente e a nessuno, se non a me stessa. So che rimarrò sempre un po' nomade, di luoghi e di corpi, di posti e di rancori, e so che anche questo contribuisce a rendermi quella che sono. Eppure, giorno dopo giorno, mi sto acclimatando. Mi piace Bowerton, mi piace il mercato, mi piacciono i suoi dintorni. So che dovrei avercela con queste strade, con ogni cosa che qui cammini e respiri, ma non riesco. E quindi mi innamoro, a poco a poco, degli incontri che faccio. Del gatto che viene a spiare sulla mia finestra, ogni mattina. Rosso, con gli occhi azzurri. Di persone strane o sciroccate, che mi capita di incontrare. Dell’apple pie che fa la tavola calda sotto al mio temporary office. Innamorarmi, come sempre, mi porta a spogliarmi. Abbandono i formalismi, con sollievo, e mi comporto con leggerezza. Anche troppa. Sono stata incauta con Helmut, un errore da pivellina. Mai affidare informazioni delicate ad un server infetto da virus. E lui è pieno di trojan. E anche di troie, per amor di cronaca. Mi sono rimproverata per due giorni, adesso basta. Tutti commettono degli sbagli, e l’essenziale è variare l’errore. Stasera ceno con un tizio che ha un grosso tatuaggio sulla gola, lo guardo muoversi mentre mi parla e mi ipnotizza un po’. Mi piace il modo in cui mi guarda, e ha delle belle mani. So che sarà un altro spazietto di colore, in una tavolozza variopinta, ma non ha importanza.

Il viaggio è lungo, di tanto in tanto è bene fare qualche sosta. E prima o poi troverò anche qui il mio spazio claustrofobico dove essere semplicemente io.